< COME SI ARTICOLA LA VALUTAZIONE ECONOMICA DI UN MARCHIO >


La valutazione economica del marchio si articola sostanzialmente in tre parti.

Inizialmente, dopo aver accertato che il marchio possieda i requisiti necessari per avere un valore "autonomo", si individuano con certezza i beni oggetto di perizia con i numeri di registrazione e gli stati di riferimento. Non si valuta mai un marchio ma sempre "un fascio di marchi" caratterizzati da un segno distintivo comune ovvero quello che chiamiamo colloquialmente "il Marchio".

Dopo di che si passa all'esame giuridico-amministrativo dei diritti nei vari stati per capire se il diritto è tutelato o meno o se vi fossero degli elementi che ne pregiudichino l'efficacia.

Questa parte della valutazione è di cruciale importanza ed è volta ad individuare eventuali elementi che possano far variare anche sensibilmente il valore del marchio. Si giudicano le anomalie nella copertura territoriale, le opposizioni, le azioni ufficiali, i casi di potenziale invalidità, i rischi di conflitto con terzi, la forza e la debolezza del marchio. Molte perizie eseguite senza l'ausilio di esperti in Marchi danno per "scontata" l'esistenza del diritto nel territorio e valutano diritti deboli o addirittura inesistenti,.

Infine, dopo aver analizzato i dati in possesso, si sceglie e si applica il metodo valutativo consono alla fattispecie. Per quanto riguarda le prime due parti, ma soprattutto per quanto riguarda la due diligence, è consigliato rivolgersi ai Consulenti in Proprietà Industriale.

Per quanto riguarda la scelta del metodo valutativo più adeguato, esistono diversi metodi di valutazione riconosciuti dagli esperti, i quali forniscono valori sensibilmente differenti tra loro perché ognuno di essi utilizza formule e dati diversi.

Analizzeremo ora nel detteglio ciascuno di questi step necessari per la valutazione economica del marchio.



La tutelabilità giuridica del marchio è quindi l’esistenza di un “monopolio reale” sul segno distintivo.

Ad esmpio sono ipotizzati sei marchi tutti destinati a contraddistinguere una bevanda a base di cola. Tutti ipoteticamente commercializzati e generanti reddito.


La cola (nome comune) è una pianta di origine sudanese.

I marchi DRINK, COLA, e COLA DRINK sono da considerare privi di valore economico in quanto generico (è il caso di DRINK) o descrittivi COLA o DRINK COLA.

Questo nonostante il marchio esista sul mercato e produca reddito.



Si entra nell’area della tutelabilità con i marchi ROYAL COLA o MECCA COLA. In quanto “non descrittivi” del prodotto contraddistinto. In questo caso i requisiti assoluti di registrazione sono soddisfatti. Si passa ai marchi di rinomanza con PEPSI COLA, COKE, e COCA COLA.





In una registrazione di marchio sono individuabili oltre ai dati di registrazione alcuni elementi fondamentali:

  • Il segno protetto,

  • i prodotti rivendicati,

  • i territori in cui tale registrazione è efficace,

  • la concessione o meno dell'attestato di registrazione,

  • il consolidamento del marchio registrato

  • i rifiuti di protezione subiti.

  • gli eventiali accordi sottoscritti (patti di coesistenza, accordi di fare o non fare).

  • l'esistenza di marchi simili.

  • la registrabilità potenziale del marchio in diversi territori

  • Si valuta se la Titolarità dei marchi coincide con il soggetto "che prende le decisioni" sull'utilizzo del segno, sostiene i costi (es. Pubblicità, ricerca ecc). Questo rileva soprattutto rispetto alle problematiche di Transfer Pricing per le imprese multinazionali.

  • sul punto per approfondimenti si veda www.iptranferpricing.com


Il diritto al marchio oggetto della valutazione si forma con la registrazione. Non saranno quindi presi in considerazione marchi non depositati.



Esame preliminare

Non sempre la valutazione economica del marchio è possibile in quanto non sempre questo possiede un valore "autonomo". Affinché il marchio abbia un valore autonomo devono essere soddisfatti i seguenti requisiti:

1) Deve esistere un diritto di "monopolio" reale sul segno distintivo, ovvero, non devono mancare i requisiti assoluti e necessari per la registrazione; questa ipotesi ad esempio non è soddisfatta quando il marchio è costituito da parole generiche o descrittive.

2) Il diritto di "monopolio" reale sul segno distintivo deve appartenere al patrimonio aziendale e non deve essere in conflitto con diritti di terzi; ad esempio il marchio deve essere registrato nel libro inventari e intestato all'azienda.

3) Deve esserci un significativo flusso di investimenti sul segno distintivo soprattutto di carattere pubblicitario; quindi non è possibile valutare un marchio appena depositato, non usato o distribuito ma intestato a terzi.

4) Il diritto di marchio deve essere all'origine di benefici economici differenziali di entità apprezzabile; nel settore delle macchine utensili ad esempio poco importa se una macchina si chiama "XXXX" oppure "yyyyy", l'acquisto è molto tecnico ed il "nome" ha poca rilevanza nella scelta. Nei beni di largo consumo, dove valutare la qualità del prodotto è difficile (esempio un profumo), il marchio assume valore primario.

5) Il diritto di marchio deve essere trasferibile in ottemperanza alle leggi locali sui marchi d'impresa.

6) Il diritto deve essere efficace e non vulnerabile rispetto ad azioni di nullità e/o decadenza per non uso.

Due diligence

Se sussistono tutti i requisiti necessari per poter valutare il marchio, si passa all'esame giuridico-amministrativo. Quest'esame è di cruciale importanza nel procedimento di valutazione e per questo viene solitamente effettuato da soggetti che conoscono il diritto industriale e le convenzioni internazionali sui marchi. Infatti, quest'indagine amministrativa permette di individuare eventuali elementi distorsivi che possono far variare il valore del marchio.

Una valida due diligence si articola nelle seguenti sei parti:

1) Esame consistenza portafoglio marchi

  • I marchi sono registrati solo depositati?

  • Siamo nella fase delle opposizioni? Il grafico in basso, pubblicato dall'EUIPO, mostra il numero di opposizioni presentate dal 1997 al 2013. Come si può evincere dal grafico, il numero delle opposizioni è notevolmente aumentato nell'ultimo decenni.

  • I marchi sono consolidati?

2) Ricerca su marchi simili per determinare se esistono

  • "Dilution"; un segno simile è usato da molti? Nell'intento di aggiungere un nuovo grafico ho provato a ricondurre la dilution alla contraffazione. È un paragone fondato? Il grafico è preso dal “Rapporto sulla contraffazione negli Stati Uniti” a cura dell'Ipr Desk di New York, pubblicato nel 2010.

  • Novità; sono vulnerabile ad un attacco giudiziario o amministrativo? Esistono rischi d'uso? Sono vulnerabile rispetto a possibili azioni di contraffazione?

  • Problemi; per esempio, le imprese controllate hanno diritti sul medesimo segno? Ci sono interferenze marchio con ditta? Ci sono problemi con nomi a dominio simili?

  • Esiste una politica di deposito marchi intergruppo? Sono revocabili le licenze concesse?

  • Esistono concorrenti che utilizzano segni simili?

  • Vendite o importazioni parallele del mio prodotto da parte di distributori in paesi esteri.

  • l'uso del marchio e la sua titolarità coincidono alla luce dei dettami Ocse sul Transfer Pricing (si veda sul punto www.iptansferpricing.com)

3) Verifica della copertura di prodotti e territori attuali e potenziali

  • Tutti i prodotti commercializzati dal marchio sono protetti dalle registrazioni?

  • I marchi sono protetti in tutti gli Stati in cui sussistono le vendite?

  • Sono tutelati prodotti affini o complementari?

4) Verifica copertura attuale e di futuro sviluppo

  • Esistono paesi in cui terzi detengono marchi identici che impediscono lo sviluppo? Questa fase è di grande importanza, in quanto, per arrivare a determinare un valore attendibile è necessario sovrapporre il territorio coperto dalle registrazioni dei marchi con i territori coperti dalle vendite. I valori del fatturato sono essenziali ai fini di determinare un valore; infatti, nella valutazione economica del marchio non tutto il fatturato è da prendere in considerazione ma solo quello che scaturisce da una vendita su un territorio dove il marchio è tutelato. Il fatturato generato da vendite su territori dove il marchio non è depositato non concorrono a creare i valori di riferimento che stanno alla base della valutazione del marchio con i metodi reddituali.

5) Verifica dell'eventuale esistenza di:

  • Rifiuti, opposizioni e controversie che possono mettere a rischio il diritto di marchio.

  • Coesistenza con ditte, pegni, licenze a terzi e accordi di coesistenza.

Scelta del metodo valutativo

In dottrina non esiste un metodo valutativo universalmente riconosciuto. La mancanza di un metodo universalmente accettato è dovuta anche al fatto che non sempre sono disponibili tutti gli elementi necessari ed idonei per effettuare una valutazione uniformemente accettabile ed eventualmente da reiterare. La valutazione monetaria del marchio, ai fini della cessione a terzi a titolo di proprietà, si incentra sulla scelta dei criteri economici idonei ad individuarne il valore quale elemento immateriale del capitale economico dell'impresa. La ricerca di questi criteri è sempre più importante nella prassi aziendale. Sinteticamente, possono essere basati:

A. sugli indicatori empirici; B. sui costi di ripristino dei diritti; C. sui flussi finanziari; D. sulla stima del contributo al reddito (o economico-reddituale); E. sulle royalties ideali (assimilabile in parte ai flussi finanziari); F. sull'accreditamento del Marchio attraverso investimenti pubblicitari e promozionali; G. sui differenziali tra i prezzi di vendita.

I valori ottenuti con tali metodologie devono essere poi "pesati", talvolta, a mezzo di "coefficienti moltiplicativi di rischio" atti a diminuirne il valore. Nella letteratura prevalente sulla valutazione del marchio si tengono in scarso risalto i coefficienti di "rischio giuridico" che consistono prevalentemente nel rischio che una sentenza di nullità o di decadenza cancelli l'esistenza del diritto di marchio in capo al titolare. La ragione va ricercata nel fatto che gran parte dei metodi di valutazione adottati in Italia hanno origine estera. Abbiamo già avuto modo di notare come in Italia l'Ufficio Italiano Brevetti e Marchi abbia limitatissime attribuzioni circa la possibilità di rigettare la domanda di marchio carente dei requisiti di legge. In numerosissimi altri Paesi le autorità preposte al rilascio del marchio possono controllare nel merito la sussistenza dei requisiti di legge per una valida registrazione. Il rischio di nullità in tali Paesi è quindi più ridotto che non in Italia.


A. Sugli indicatori empirici Il metodo empirico si riferisce alle informazioni espresse dal mercato. Si assumono quali informazioni i prezzi pagati in negoziazioni similari espresse dal mercato e si estrinsecano in una percentuale o in un moltiplicatore da applicare ad una determinata grandezza: fatturato, reddito lordo o margini lordi, royalties...

Poiché i metodi basati sugli indicatori empirici possono essere ritenuti carenti in quanto fondati su prassi teoriche della negoziazione ed anche perché risentono delle condizioni soggettive delle parti (si pensi alle cessioni intergruppo), non possono essere tanto oggetto di giudizio quanto di mera constatazione e servono quando gli altri metodi più razionali sono inutilizzabili.

Si tratta di verificare l'adeguatezza del coefficiente di moltiplicazione all'elemento di flusso imputabile al marchio (reddito, fatturato, margine lordo margine netto ecc.).

METODO INTERBRAND Tali criteri estimativi sono stati elaborati in particolare dalla Interbrand, una società di consulenza con sede a Londra, ed appaiono per la prima volta negli articoli di P. Stobart e J. Murphy pubblicati in "Accountancy" (ottobre 1989) ed in "Long Range Planning" (n. 3/1990). Secondo tale metodo, il valore di un marchio è dato dal prodotto tra il flusso di redditi imputabili al marchio stesso ed un certo moltiplicatore che esprime la forza del marchio. Quello proposto da Interbrand è un metodo che unisce ad una valutazione di tipo finanziario, basata sull'attualizzazione dei flussi differenziali prodotti dal marchio oggetto di valutazione, una valutazione di tipo qualitativo legata alla determinazione della forza del brand.

Wbrand = Fmarchio x U

Il valore del marchio viene determinato attraverso la seguente formula, nella quale “F marchio” è una variabile che esprime i flussi di reddito differenziali attribuiti al marchio oggetto di valutazione, mentre “U” è un multiplo che esprime la forza del marchio. Con questo metodo il valore del marchio viene determinato attraverso diverse fasi. Come prima cosa occorre determinare il flusso di redditi differenziali imputabili al marchio, “Fmarchio” nella formula. Successivamente deve essere determinata la forza del marchio “U”, e per farlo devono essere presi in considerazione i seguenti sette fattori:

La forza del brand è espressa da un punteggio che va da 0 a 100, basato su queste sette variabili, le quali sono a loro volta suddivise in altri numerosi value drivers o indicatori. Non è possibile trovare un'illustrazione più dettagliata di questi sette fattori e dei loro indicatori in quanto Interbrand, titolare di questo metodo, non lo ha mai divulgato nella sua interezza.

Infine, come terzo passo bisognerà trasformare il punteggio compreso tra 0 e 100 in un multiplo. Tale operazione avviene attraverso l'impiego di una relazione matematica di tipo logaritmico, che permette di trasformare il punteggio della forza del marchio in un multiplo compreso tra 0 e 20. Si tratta della nota curva ad S di Interbrand.

La somma delle quantificazioni ponderate pesi-valori per i sette fattori esprime l'indicatore della forza del marchio ("brand strength score"), cioè il coefficiente di moltiplicazione da applicare alla grandezza base di riferimento. Questo coefficiente viene assegnato in base ad un algoritmo "gelosamente custodito" dall'impresa e frutto di un'interpolazione con la serie storica di valori di scambio estimati in passato per fattispecie analoghe.

I criteri usati per l'acquisizione di marchi celebri di grandi aziende negli ultimi anni esprimono moltiplicatori vari. Sembrerebbero essere stati osservati per marchi celebri, valori del coefficiente moltiplicativo pari a 25 o 35 applicato al reddito medio normalizzato al netto della tassazione. Valori poi ripresi in altre pubblicazioni. Tali coefficienti debbono essere applicati a grandezze medie normalizzate e ponderate con riferimento all'andamento dei possibili più comuni investimenti (Titoli di Stato a media scadenza) e del tasso di inflazione. Così ponderata, la valutazione può ritenersi in linea con i postulati contabili ai fini di un'iscrizione in bilancio del marchio.

Tre sono i punti di debolezza di tali metodi:

  • la validità concettuale;

  • la neutralità;

  • la possibile differenza della forza del diritto al marchio, la sua copertura territoriale e la sua difendibilità.

Va precisato che i termini empirici, anche se applicati abitualmente, non sono impiegabili per la valutazione di nuovi marchi o di marchi dati in licenza per nuove o diverse classi merceologiche. In particolare pensare che un marchio possa valere fino a 30 volte il flusso di redditi generato è a parere dello scrivente eccessivo, come pure i valori individuati da Interbrand. Significherebbe comprare un bene oggi, per raccogliere il primo frutto tra trenta anni. Possibile, ma difficile.

B. Sui costi di ripristino dei diritti

Il metodo riferito ai costi è da impiegarsi principalmente, ma non esclusivamente, per i marchi non utilizzati o per i marchi in odore di decadenza. Soprattutto per quei segni distintivi sui quali non è stato effettuato alcun investimento pubblicitario o nel caso questo fosse così antico da essere stato dimenticato dal pubblico dei consumatori. Tale metodo a nostro avviso non è utilizzabile nei casi in cui si estenda l'attività aziendale in altri settori adottando un marchio già noto per differenti prodotti.

Il metodo dei costi si può distinguere in quattro configurazioni:

1. costo storico, esprime la sommatoria di tutti gli oneri sopportati durante il ciclo di vita del marchio direttamente e sicuramente imputabili allo stesso. Si tratta, ad esempio, dei costo di ideazione, di verifica delle disponibilità, degli oneri degli esperti creativi e pubblicitari, i costi di deposito e registrazione e, soprattutto, dei costi sostenuti per lanciare e consolidare l'immagine, le spese specifiche di pubblicità, ecc. Come subito appare, tale metodo è insufficiente a delineare un valore aggiornato ed evoluto temporalmente, in senso operativo. Meglio è considerare il metodo del costo storico rivalutato, cioè aggiornato ai valori correnti.

2. costo storico rivalutato, tale configurazione è quella che risulta essere più adeguata tra i metodi basati sui costi. Da un punto di vista applicativo, per arrivare alla misurazione del valore monetario del marchio attraverso questa metodologia, vanno essenzialmente identificati i seguenti 3 elementi:

  • i costi da considerare nell'operazione La parte sicuramente più complicata riguarda l'identificazione dei costi da capitalizzare. È necessario cercare tutti i costi che si trovano alla base della forza del brand. Teoricamente bisognerebbe risalire a tutti i costi/investimenti sostenuti in passato per ottenere le attuali caratteristiche di differenziazione, affidabilità e diffusione del brand. Vanno quindi inclusi nell'analisi solo quei costi con caratteristiche di investimento. Per quanto riguarda i costi di marketing, andrebbero considerati solo quelli sostenuti solo una volta durante il ciclo di vita del prodotto, ovvero quelli relativi alle fasi di lancio e consolidamento. Secondo tale approccio andrebbero quindi escluse le spese di pubblicità sostenute per il mantenimento del valore del brand. Questo principio è però applicabile solo nel caso in cui è possibile individuare il punto H, ovvero il punto in cui l'utilità marginale di ulteriori spese di pubblicità, indipendentemente dal loro ammontare, diventa modesta. Questa situazione è mostrata dal grafico qui in basso.


    Prendere in considerazione tali spese porterebbe ad attribuire al marchio un valore crescente al loro crescere, in realtà tali investimenti/spese riducono il valore del marchio in quanto il loro ritorno è inferiore a quello atteso. Quest'analisi sull'utilità marginale degli investimenti in pubblicità fornisce una guida per i dirigenti aziendali ma il punto H risulta molto difficile da determinare.

  • l'indice di aggiornamento monetario dei costi Per quanto riguarda la scelta dell'indice di aggiornamento monetario dei costi, generalmente si utilizzano gli indici di inflazione come l'indice dei prezzi al consumo, il deflatore del PIL e l'indice del costo della vita.

  • la vita economica del bene Per determinare la vita utile del bene si utilizza la seguente formula:





Nella formula di cui sopra, "F" è il flusso di cassa al tempo "t", mentre "i" è il tasso di attualizzazione pari al costo del capitale.

3. costo di sostituzione o riproduzione, prevede una proiezione degli oneri necessari per avere un marchio dotato delle stesse caratteristiche di immagine e di penetrazione sul mercato. Questa ultima sottospecie del metodo dei costi perde in obiettività dato che si tratta di grandezze opinabili.

4. costo della perdita, basato sul calcolo del danno che deriva all'azienda in conseguenza alla perdita dell'uso del marchio. 5. costo di rimpiazzo; per poter applicare questa metodologia bisogna essere in grado di determinare l'ammontare esatto degli investimenti in diffusione, affidabilità e differenziazione. Una volta definite le tipologie di investimenti che è necessario sostenere per poter ricostruire il brand, è possibile applicare due procedimenti alternativi:

C. Sui flussi finanziari

I metodi finanziari sonoaffini a quelli usati per la valutazione globale dell'azienda. Si effettua un'estrapolazione della stima complessiva dei flussi monetari prodotti dal marchio con proiezione negli esercizi futuri attualizzati ad un tasso adeguato. Sono evidenti la difficoltà e la delicatezza del metodo, data la soggettività delle valutazioni dei flussi finanziari in prospettive temporali.

D. Sulla stima del contributo al reddito (o economico-reddituale)

I metodi economici-reddituali si prefiggono di quantificare il contributo offerto dal marchio alla redditività. Il metodo consiste nell'attualizzazione, per un certo numero di anni, dei differenziali reddituali apportati dal marchio all'impresa. In breve, si ricerca la differenza tra il reddito di impresa, relativamente al prodotto/merce dotato del marchio, e quello conseguibile con un prodotto/merce privo di marchio. Il valore economico del marchio è, in ogni caso, indipendente dal valore delle cessioni accessorie e complementari. Per completezza vanno anche ricordati i metodi di stima che coinvolgono l'economia aziendale del compratore. Tali metodi sono diretti a stabilire i benefici reddituali differenziali in termini di utilità per l'acquisitore e vengono applicati quando non sono possibili o proficue indagini in relazione all'azienda cedente.

E. Sulle royalties ideali (assimilabile ai metodi sui flussi finanziari)

Non va sottaciuto, per completezza espositiva, che in tempi relativamente recenti il metodo più utilizzato e forse anche più descritto nella letteratura italiana è quello delle "royalties ideali", secondo la denominazione più recente. Tale metodo rappresenta una sorta di superamento, anche se parziale, del problema della neutralità (e della sottostante antinomia) tra venditore e compratore e consiste nell'attualizzazione dei redditi calcolati sulla base delle "royalties" percentuali ragionevolmente o meglio "ipoteticamente" ottenibili sul mercato del marchio.

In pratica, si ipotizza che il marchio (o meglio il "fascio" di marchi) vengano ceduti in licenza esclusiva dietro pagamento di una percentuale commisurata al fatturato. Il valore del marchio potrebbe essere, quindi, rappresentato dal flusso di royalties che il mercato sarebbe pronto a pagare qualora la totalità dei beni fosse prodotta da terzi muniti di esclusiva licenza sul marchio. La seguente tabella riporta i valori (in percentuale) di royalty utilizzate per contratti che coinvolgono titoli di proprietà industriale nei diversi settori


Una volta calcolate l'ammontare delle royalty ipotetiche future moltiplicando il fatturato futuro prospettico per il tasso di royalty tipico del settore dette Royalty vengono attualizzate per un periodo da individuarsi tramite riferimenti legislativi o ipotizzando la permanenza del ricordo del marchio nel pubblico dei consumatori. L'utilizzo di un orizzonte temporale "standard" di 18 anni seguendo i tempi di minimo ammortamento fiscale di un marchio oggi vigente non è corretto a parere dello scrivente. Questo genera per marchi "non celebri" risultati sovrastimati. O meglio certi marchi possono essere ricordati anche per più di 18 anni (in caso di interruzione dell'uso) ma questo non è un riferimento "assoluto per l'utilizzo del metodo". Assolutamente senza senso è l'utilizzo del tempo residuo di validità amministrativa.



Le royalties annue vengono calcolate in base alla seguente formula:



dove: A è l'ammontare monetario derivante dalla royalty che scaturisce ipoteticamente dalla vendita tutura per "n" anni dei prodotti con il marchio oggetto di valutazione; i è un coefficente di attualizzazione scelto "ad hoc" (es. il tasso di inflazione)


il risultato è Vam ovvero valore attuale del marchio.

F. Sull'accreditamento del Marchio attraverso investimenti pubblicitari e promozionali

Il metodo basato sull'accreditamento del Marchio attraverso investimenti pubblicitari e promozionali è chiamato anche "metodo del valore residuo". Questo considera le spese sostenute dall'azienda per far conoscere il marchio e distingue tra la fase di lancio e la fase di consolidamento del marchio. I costi di pubblicità sostenuti nella fase di lancio sono maggiori di quelli sostenuti nella fase di consolidamento. Tale considerazione è stata recepita dal legislatore fiscale che ammette la ripartizione delle spese pubblicitarie su più esercizi. I costi presi in considerazione sono sia i costi pubblicitari sia i costi di marketing attualizzati a valori correnti. Colui che acquista un marchio già pubblicizzato può ottenere un vantaggio economico consistente nel risparmio delle spese pubblicitarie connesse al lancio del prodotto, che notoriamente sono le più consistenti. Il cessionario si avvantaggia dei benefici della pubblicità diffusa dal cedente negli esercizi precedenti.

G. Sui differenziali tra i prezzi di vendita (price premium assimilabile al metodo economico-reddituale)

Si può applicare ogni volta che si sia in grado di determinare, a partire dagli studi sulle preferenze dei consumatori, quanto essi sarebbero disposti a pagare (in termini di prezzo ovviamente) per il mantenimento del marchio su un prodotto. Si può operare misurando lo scarto dei prezzi fra il marchio e un prodotto generico o senza marchio ovvero il “margine differenziale netto”, il quale va poi pesato con le quantità di prodotto vendute. Si ottiene così un volume d'affari che rispecchia il valore del reddito procurato dal marchio. Il caso tipico è rappresentato dai prodotti di largo consumo venduti attraverso il canale della grande distribuzione. Esistono quasi sempre uno o più prodotti "leaders" caratterizzati da alti investimenti pubblicitari e parimenti esistono prodotti di caratteristiche qualitative pressoché identiche commercializzati "a marchio proprio". I prodotti hanno spesso caratteristiche qualitative molto simili. Non è raro che i prodotti a "marchio proprio" siano prodotti dal "leader" su commissione della catena di Supermercati. Ora il pubblico dei consumatori si divide tra quelli che acquistano il prodotto "leader" e quelli che acquistano quello "a marchio proprio". Il marchio è spesso l'unica differenza. Pertanto il "premium price" ovvero la porzione di prezzo spuntata dal "leader" pesata con i volumi di vendita misura l'apporto del marchio notorio alla redditività delle vendite.

Modalità applicative

Ipotizziamo di avere due imprese A e B. L'impresa A vende il prodotto con marchio, mentre l'impresa B vende lo stesso prodotto ma senza il marchio. Per determinare il valore del marchio attraverso questo metodo si procede nel seguente modo:

1. Si procede a determinare il ricavo differenziale netto in seno all'azienda proprietaria del marchio. In breve, se il prodotto A dotato di marchio viene venduto ad un prezzo unitario di 250€ mentre il prodotto B, non dotato di marchio, viene venduto ad un prezzo di 100€, il ricavo differenziale netto è pari a 150€.

2. Il secondo passo consiste nel moltiplicare il ricavo differenziale netto con le quantità vendute. Si ottiene così l'ammontare dei ricavi differenziali di A per effetto del premium price conseguente al marchio.

3. L'ultimo passo consiste nell'analisi dei costi differenziali tra A e B, connessi al marchio. Si tratta di un parte molto delicata in quanto non è sempre evidente quali siano i costi differenziali.

4. L'ultima fase consiste nel calcolo del margine differenziale netto che può fare riferimento:

  • al reddito operativo netto (NOPAT) Si attualizza, per un periodo pari alla vita utile stimata del marchio, il reddito operativo differenziale. Anche qui vi sono poi due strade alternative: a) si stima il reddito operativo netto differenziale che corrisponde a ciascuno degli esercizi futuri, per tutta la vita utile stimata; la determinazione del valore del marchio dunque avviene utilizzando la seguente formula:


dove: Fdt è il flusso differenziale relativo al periodo t k0 è il costo medio ponderato del capitale dell'azienda che possiede il marchio.


b) si normalizza il reddito operativo netto differenziale e si procede all'attualizzazione per il periodo di vita utile stimato di tale figura di reddito normalizzato; la determinazione del valore del marchio in questo caso avviene invece in base alla seguente formula:

Wmarchio = Fdn x an-k0

dove:

Fdn è il flusso differenziale normalizzato;


an-k0 è il fatturato di attualizzazione in relazione alla vita utile del marchio.

  • al free cash flow operativo (FCF) per determinare il FCF operativo è necessario conoscere, oltre ai ricavi e ai costi differenziali, anche eventuali differenze nelle grandezze relative al capitale circolante e agli investimenti:

    a) per quanto riguarda il capitale circolante è possibile pensare che un'azienda con marchio forte abbia maggiore potere contrattuale rispetto ad un'azienda con un marchio debole e che dunque riesca a spuntare migliori condizioni di incasso e pagamento. b) Per quanto riguarda gli investimenti differenziali, in realtà sono già stati considerati parlando di costi differenziali. È ragionevole pensare che un'azienda con un marchio forte debba sostenere investimenti maggiori rispetto ad un'azienda unbranded. La tabella seguente riassume come giungere al free cash flow operativo differenziale:


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